Strategie di sviluppo
Sviluppo per imitazione
Nell’Ottocento si riteneva possibile una rivoluzione industriale per
“imitazione”, un tempo infatti, le tecniche erano relativamente
semplici e i capitali necessari erano modesti. In qualche caso si è
verificato lo sviluppo di un particolare settore, anche per impulso dei
paesi sviluppati, che si ritrova però a produrre soltanto per il
mercato estero e non riesce ad integrarsi con il resto dell’economia
nazionale. Si parla in questo caso di “dualismo economico”,
in cui il settore arretrato è generalmente quello agricolo.
Le iniziative industriali non hanno condotto ad un effettivo sviluppo del
paese, perché buona parte dei profitti ritorna ai paesi avanzati
(ad esempio sotto forma di interessi) e il resto è consumata da
una minoranza di popolazione benestante. Spesso il paese povero controlla
soltanto una parte del processo di fabbricazione, quella che richiede
manodopera poco specializzata.
Il commercio internazionale stimola soltanto i settori funzionali alle economie
dominanti, così i paesi sottosviluppati sembrano condannati a un
circolo vizioso: i buoni prezzi delle materie prime e dei prodotti alimentari
scoraggiano la spinta all’industrializzazione, quando i prezzi calano
tale spinta si riattiva, ma mancano i fondi per avviare un processo di industrializzazione.
Intervento esterno
Alcuni studiosi ritengono che sia necessario un massiccio intervento su
più livelli: l’offerta di capitale sociale (energia, trasporti,
comunicazioni, abitazioni) e di risparmio, e un insieme di investimenti.
In parole povere il significato è questo: non serve costruire una
fabbrica, se poi non c’è nessuno che possa acquistare i suoi
prodotti, occorre costruire cento fabbriche, in modo che i produttori diventino
acquirenti l’uno dell’altro.
Riflessioni
Oggi il Terzo Mondo si ritrova ad affrontare ostacoli che nell’Ottocento
non esistevano:
- crescita demografica ed esodo rurale (a parità di territorio ci
sono più persone da sfamare e meno persone che lavorano la terra)
- gap tecnologico (i paesi industrializzati hanno condotto uno sviluppo
senza precedenti nel campo tecnologico, mentre i paesi del Terzo mondo sono
rimasti esclusi da questo processo, determinando una forbice sempre più
ampia tra paesi avanzati e Terzo mondo)
- riduzione del costo dei trasporti (talvolta è più conveniente
importare merci dall’estero piuttosto che la realizzazione di imprese
locali, favorisce la coltivazione di prodotti che hanno un grande mercato
all’estero piuttosto che un’agricoltura di sussistenza, invita
all’esportazione delle materie prime piuttosto che alla loro trasformazione
nel paese d’origine)
- alti costi degli investimenti industriali (a causa dell’elevato
sviluppo tecnologico di questi ultimi decenni)
- ipertrofia urbana (sprechi, sottoccupazione, ecc.)
Alcuni casi di uscita dal sottosviluppo
Da alcuni decenni alcuni paesi sono riusciti ad affrancarsi dal sottosviluppo,
per definire questi paesi di nuova industrializzazione, è stata introdotta
la definizione di NIC (Newly industrialized countries).
Alcuni paesi, come Brasile o Messico, per ridurre le importazioni hanno
puntato sull’industria pesante, grazie ai finanziamenti statali, di
alcune multinazionali e di banche estere.
Altri paesi, come Corea, Hong Kong, Singapore, Taiwan, hanno deciso di incrementare
le esportazioni, puntando così su alcuni settori specifici, come
l’elettronica, ed ora sono diventati concorrenziali rispetto ai paesi
industrializzati. A sostegno di questo particolare processo di industrializzazione,
sono arrivati finanziamenti dal Giappone, inoltre lo sviluppo è stato
favorito dalla disponibilità di manodopera a basso costo.
Altri paesi hanno preferito trasformare le materie prime di cui erano ricchi.
La Giamaica, per esempio, è caratterizzata dalla presenza di numerosi
giacimenti di bauxite, ha così deciso di impiantare fabbriche
di alluminio, in seguito ha iniziato a realizzare i primi prodotti,
che sono stati immessi sul mercato a prezzi decisamente inferiori rispetto
a quelli dei paesi avanzati.
Gli anni Cinquanta hanno visto lo sviluppo delle cosiddette “tigri
asiatiche”, Hong Kong, Taiwan, Corea del Sud, Singapore. Negli anni
Ottanta è stata la volta dell’Indonesia, la Malaysia, le Filippine,
la Thailandia e il Vietnam. Agli inizi degli anni Novanta lo sviluppo ha
toccato, seppur in misura minore, alcuni paesi latinoamericani, Cile, Argentina,
Perù.
Nella maggior parte dei casi sono stati seguiti schemi liberisti, propensi
cioè a svincolare l’attività imprenditoriale da ogni
forma di controllo statale e da oneri, soprattutto per quanto concerne i
diritti dei lavoratori. Talvolta i diversi paesi si sono riuniti in Unioni
sopranazionali (ad esempio gli stati del sud-est asiatico si sono associati
nell’Asean) per diminuire i dazi doganali ed attirare i capitali stranieri.
Non bisogna dimenticare che l’uscita dal sottosviluppo spesso si è
accompagnata a sistemi politici scarsamente democratici e con strutture
rigide e poco solidali. Il miglioramento in termini di benessere economico
non si è quindi coniugato a un miglioramento sociale e politico.
Questo fattore rende comunque instabile e precario lo sviluppo raggiunto.
Un posto a sé è occupato dalla Cina, che da quando è
uscita dal maoismo ha avviato un processo di industrializzazione consistente
tanto da portare molti studiosi ad individuare nella Cina una delle grandi
potenze del prossimo millennio.
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