Arte
Il grido (1893, Oslo, Nasjonalgalleriet)
Il linguaggio pittorico di Edvard Munch (1863-1944), pittore scandinavo,
affonda le radici nel simbolismo in un’interpretazione d’intensa
drammaticità, secondo i modi che divennero propri dell’espressionismo
tedesco. Esposto a Berlino, il dipinto risulta sconvolgente non solo per
il soggetto, ma anche per lo stile sintetico, primitivo, privo di qualsiasi
verosimiglianza. Una figura vagamente umana, quasi una mummia (che forse
Munch ha visto al Museo antropologico di Parigi) o una maschera, urla con
la testa tra le mani personificando il sentimento della disperazione. I
suoi contorni, come nei dipinti precedenti dell’ Ansietà, sono
tracciati schematicamente, i lineamenti appena abbozzati: due punti in mezzo
a due cerchi per gli occhi, due punti che indicano le narici, un ovale per
la bocca. Le mani si allungano dalle braccia come due striscie di colore
continuo, senza i dettagli delle dita. La diagonale di un parapetto divide
brutalmente la scena separando la strada, dove s'intravedono in lontananza
due figure, da un mare e da un cielo che sembrano sanguinari, tanto i colori
sono contrastanti. Le forme sono accennate con linee ondulate, che sembrano
seguire il ritmo lancinante dei pensieri, il singulto dell'emozione, i percorsi
tortuosi della mente. "Ho sentito questo grande grido venire da tutta
la natura". Il volto umano posto al centro della tela come una sorgente
sonora di suoni sordi, strazianti e discrepanti che poi si allargano in
un fascio di onde fino ai limiti del quadro: onde non esattamente concentriche,
anzi studiatamente eccentriche, agitate da scarti improvvisi, così
da designare gomiti, anse ristrette, strozzature; e ciò appunto per
ribadire sempre per via di illusioni simboliche, una "pena di vivere",
una condizione di scompenso, che non potrebbe risultare da un linearismo
e da un uso della curva troppo sciolti e distesi. I più cupi stati
psichici non restano chiusi nell'individualità di chi li porta, ma
si trasmettono a tutto il cosmo. Il dipinto ripercorre un'esperienza traumatica
vissuta dall'artista: egli stesso scrive, commentando l'opera: "Fermandomi,
mi appoggiai alla balaustra, quasi morto di fatica. Sopra il fiordo neroazzurro
pendevano nubi, rosse come sangue e come lingue di fuoco. I miei amici si
allontanavano e, solo tremando d'angoscia, presi coscienza del grande urlo
infinito della natura". E' la memoria dunque, il vissuto personale
che determina il soggetto, e anche lo stile onirico, irreale, palpitante
di emozioni. Paragonandolo a Gauguin, di cui adotta le forme semplificate,
un critico sottolinea la diversità di Munch, il suo cercare prima
di tutto dentro di sé i motivi della pittura: "non ha bisogno
di andare a Tahiti per vedere o per provare ciò che vi è di
primitivo nella natura umana. Egli porta dentro di sé la sua propria
Tahiti".
I tratti esteriori sono interpretati come simboli di un dramma psichico
interiore, cioè ammettono un rinvio spiritualistico, oltre la loro
semplice consistenza materiale. Viene rappresentato un dramma psichico,
che oltretutto intende affermarsi come non strettamente legato al singolo
individuo che lo porta, ma come largamente estensibile e di portata universale,
tale da coinvolgere lo stesso osservatore e ogni essere umano, e da confluire,
al limite, nell'ambito delle più vaste e indifferenziate forze
di natura. Dalla psicologia individuale, insomma, si passa a una sorta
di metapsichica o di psicologia cosmica, a un sentire dilatato che non è più
soltanto degli uomini, ma anche delle cose: dove gli uni trasmettono alle
altre i dolori e le angosce che li affliggono, ma ne ricevono in cambio
la consolazione di vedere che quei loro stessi scompensi trovano una legittimazione
universale. Munch abbandona una considerazione oggettiva, distaccata di
fatti quali il sesso, la malattia, la depressione psichica per viverle
piuttosto come realtà intime, soggettive: non più cioè un
qualcosa che "abbiamo", una parte estrinseca, additiva, ma un
qualcosa che "siamo", che ci coinvolge nelle nostre radici più profonde.
Cade allora la presunzione della fedele e rigorosa registrazione di quei
mali, di quegli squilibri, e subentra ad essa l'intento di esprimerli,
di ricavarne un'essenza, "bella" stilisticamente e nello stesso
tempo capace di vibrare all'unisono con quelle profondità psichiche
, per quel senso d'ansia sospesa della figura nello spazio vuoto, il primo
segno dell'influenza, nell'arte, dell'esistenzialismo di Kierkegaard. Il
fatto veramente importante non è la descrizione, indubbiamente acuta,
di una situazione psicologica; è la concezione nuovissima del valore,
della funzione del simbolo, che è sempre il segno di un divieto,
di un tabù sociale, il modo di significare qualcosa che non deve
essere detto in termini chiari. La società, diceva Ibsen, è
come una nave con un cadavere a bordo; e il cadavere è il simbolo-
tabù. Munch afferma che non ci si salva dalla realtà evadendo
il simbolo; la realtà è tutta simbolica, nulla è più
reale del simbolo. L'Amore è il sesso, la Morte è il cadavere
o la bara, la Società è la folla, la Parola è suono
inarticolato, urlo. Nulla, nella realtà, ha la stabilità,
la chiarezza, il significato certo della forma, tutto ha la precarietà,
l'instabilità, l'inconsistenza dell'evento o dell'immagine.
Si osservino la straordinaria fluidità delle linee, la scorrevolezza
del segno, la mancanza di partiti contrastanti d'ombra e di luce,
di colori forti: tutto, anche le minime note grafiche o coloristiche
alludono alla continuità
del tempo, al trascorrere della vita, all'inarrestabilità del destino.
L'immagine non deve tanto impressionare l'occhio quanto penetrare, colpire
nel profondo: forse perciò la concezione realistica dell'immagine
di Munch, più ancora che nella pittura degli espressionisti tedeschi,
ha avuto conseguenze decisive in quella che può considerarsi
la più
moderna e più efficace tecnica dell'immagine, il cinematografo (specialmente
il cinema espressionista e la regia di Dreyer e di Bergman).
L’influenza della filosofia kierkegaardiana
La filosofia di Kierkegaard trasmette a Munch
l’idea della solitudine dell’uomo di fronte alla propria spiritualità,
il senso della perdita di un orizzonte collettivo in cui possano inscriversi
i problemi esistenziali e la loro soluzione. Il soggetto del Grido è
come sospeso nel vuoto, tra il tutto e il nulla, tra la realtà e
l’eternità. Viene rappresentato mentre lancia un urlo muto,
un urlo straziante. Tutta la natura urla insieme a quell’uomo, che
è l’umanità intera; infatti noi spettatori siamo partecipi
dell’angoscia dell’uomo, angoscia che si traduce in un grido
senza suono, perché non riesce a uscire da quella tela, non c’è
possibilità di comunicazione tra il soggetto del quadro e gli spettatori.
Per questo il sentimento di dispersione è ancora più acuto.
Questa condizione umana è definita da Munch come demoniaca.
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